La terminologia, le parole
e i concetti in teologia
(secondo la tradizione
ortodossa)
I padri sottolineano il fatto
che tutte le parole e tutti i concetti
che l’uomo possiede sono
creazioni dell’intelligenza umana:
non scendono, cioè, dal
cielo. Non è D-o medesimo a creare
negli uomini né i concetti né
le parole. Da questo punto di vista,
i padri evidenziano, ponendo
a fondamento la propria esperienza
della divinizzazione, che
ogni lingua umana è un prodotto
umano. L’uomo è colui che la
creato la lingua con la quale
comunica con gli altri esseri
simili a sé. Non esiste una lingua
divina. D-o, cioè, non ha la
sua propria lingua, che avrebbe dato
all’uomo, né comunica con
l’uomo con una qualche lingua particolare, che egli consegnerebbe a coloro con
cui si rapporta. La lingua è frutto delle necessità umane. Essa è stata, cioè,
modellata dagli uomini per servire ai rapporti e ai bisogni di comunicazione degli
uomini.
La lingua, pertanto, non è
ciò che sostengono Dante, parecchi
protestanti, così come i
teologi franchi del medioevo, né ciò che
dicono i musulmani a
proposito del Corano (il Corano e la sua lingua sarebbero discesi dal cielo;
esisterebbe, anzi, in cielo il
Corano increato, ecc.). Su
questo tema conosciamo anche l’importante discussione tra san Gregorio di Nissa
e gli eunomiani.
Questi ultimi credevano
nell’esistenza di una lingua divina che
D-o avrebbe rivelato ai
profeti. A tale lingua – dicevano – appartengono i nomi di D-o riportati dai
profeti. Essi asserivano che i nomi di D-o sono l’essenza di lui e che questi
nomi, citati dalla Sacra Scrittura, sono veicoli di concetti che corrispondono
alla realtà che è D-o. Naturalmente, ciò è al di fuori di ogni verità.
In base a quanto sopra si è
detto, non possiamo distinguere
tra lingua divina e lingue umane.
Non vi è alcuna lingua divina
con la quale D-o parla agli
uomini. Né vi è un modo per distinguere quali termini siano adatti alla
teologia e quali no. Non
esiste una chiara distinzione
tra terminologia ammissibile e
inammissibile. L’unico
criterio che può essere usato nella terminologia relativa a D-o è il criterio
della convenienza. Vale a
dire: ci sono nomi che non è
conveniente utilizzare nel caso di
D-o (D-o è un bricconcello,
ad esempio), mentre altri sono convenienti e possono essere adoperati quando
parliamo di lui
(D-o è Luce, ad esempio).
Entro questa cornice,
l’intera gnoseologia patristica, che è
puramente sperimentale, è
qualcosa che, almeno per gli ortodossi,
forse anche per gli altri
cristiani, risulta assai utile.
Si potrebbe anzi dire che
essa risulta, altresì, assai moderna.
Perché, quando i padri
scrivevano ciò che scrivevano non
sospettavano che si sarebbe
più tardi sviluppata una tradizione
franca, che avrebbe
riconosciuto in Agostino il suo plasmatore.
I padri dell’oriente, infatti,
non conoscevano Agostino. Ma
anche coloro che di lui
sapevano qualcosa, non gli hanno dato
molta importanza, almeno nei
primi anni. Non lo avevano letto
e nemmeno immaginavano che
sarebbe sorta un’intera tradizione
occidentale tra goti,
franchi, longobardi, normanni, ecc.,
che avrebbe avuto come sua
guida esclusiva in teologia
Agostino, il quale,
disgraziatamente, aveva abbracciato la gnoseologia platonica, neoplatonica e
aristotelica. Il che significa
che la gnoseologia di
Agostino, cioè il metodo della teognosia
che egli applicava, era
totalmente differente da quello dei padri
della Chiesa, essendo
puramente aristotelico-platonico.
Ciò che distingue la teologia
di Agostino dalla restante teologia
dei padri è il fatto che egli
accoglie nella sua teologia l’essenza
del platonismo, che sono gli
archetipi di Platone. Il fatto,
cioè, che tutte le cose
presenti nel mondo sarebbero copie di
qualche archetipo.
Naturalmente, ciò è qualcosa che i padri
respingono. Non solo: esiste
una scomunica dal corpo della
Chiesa per quanti accettano
gli archetipi di Platone, perché
questa loro accettazione è
una forma di idolatria 1. Oggi non so
se vi sia una persona seria
che faccia proprio un insegnamento
di tale natura.
In base a quanto detto, si
può osservare che, per gli ortodossi,
non vi è una distinzione tra
secolare e religioso nell’ambito
della terminologia. Non
esistono, cioè, parole secolari e parole
religiose, ma solo parole
secolari, che sono utilizzate, purché
convenienti, nei concetti
riguardanti D-o.
Notiamo, così, che D-o – Jahveh
– nell’Antico Testamento è
descritto come roccia. Ma è
davvero D-o una roccia? Nello spirito
della filosofia platonica,
bisognerebbe usare soltanto
espressioni concettuali 2,
quali intelletto, ragione, mente, ipo-
stasi, essenza, trinità,
unità, ecc. La Sacra Scrittura si serve di
termini come monte, rupe,
pietra, acqua, fiume, cielo, sole, ecc.
Se esaminiamo, cioè, l’Antico
Testamento, vediamo che vengono
attribuiti molti nomi a D-o
che non sono tratti dalla figura,
dalla natura dell’uomo, ma
dalla creazione irrazionale. L’azione
di D-o viene descritta nei
termini di nube, fuoco, luce, ecc.
Alla tradizione ebraica
anteriore ai profeti, ma anche ai profeti,
era noto che D-o non ha
un’immagine nella creazione
materiale. L’uomo non può
costruirsi un’immagine di D-o.
Nell’Antico Testamento è
proibita qualsiasi raffigurazione di
lui. Nell’Antico Testamento
gli ebrei non avevano immagini.
L’unica immagine identica
(aparállaktos) di D-o è il Verbo di
D-o che si è fatto uomo, cioè
il Cristo. D-o, se si eccettua lui – se
si eccettua il Cristo –, non
ha altre immagini. L’uomo comune
non è immagine di D-o. Solo
il D-o-uomo Gesù Cristo è immagine
di D-o. Nulla, eccezion fatta
per Cristo (secondo la sua
natura umana), è immagine di D-o
nel mondo creato 3.
Per questa ragione dunque,
perché, cioè, D-o non ha alcuna
realtà a lui somigliante
all’interno del mondo creato e perché
non esistono, all’interno del
mondo creato, concetti che possano
esprimere lui e identificarsi
con lui, siamo liberi di prendere
qualsivoglia nome e
qualsivoglia concetto, e di attribuirli a D-o,
ma in modo apofatico,
negativo. Ossia: da un lato, attribuiamo
un nome a D-o e, dall’altro,
glielo togliamo. Diciamo, ad esempio,
che D-o è Luce. Al tempo
stesso, tuttavia, operiamo anche
la sottrazione (l’aphaíresis)
dicendo che D-o è altresì tenebra
(oscurità). Affermiamo ciò
non perché D-o non sia Luce, ma
perché egli trascende la
luce. D-o non è privazione, ma superamento.
Ciò, tuttavia, sarà meglio
chiarito più in là.
Qui siamo in presenza di una
differenza essenziale tra la teologia
apofatica dei padri della
Chiesa e quella dei teologi scolastici
del medioevo occidentale, che
è ancora presente nei loro
manuali. Se esaminiamo i
manuali di dogmatica dei teologi
romano-cattolici, osserviamo
il seguente paradosso: essi sostengono che c’è una via che ci permette di
attribuire dei nomi a D-o e ce n’è, del pari, un’altra, quella negativa, nella
quale priviamo D-o di questi nomi, non per non attribuirglieli ma per purificarli
da tutte le loro imperfezioni.
Nulla di simile, tuttavia,
riscontriamo nei padri della Chiesa,
nei quali il metodo di
attribuzione di nomi a D-o è semplice.
Essi, cioè, danno nomi e
tolgono nomi. Vale a dire: si servono
di antitesi. Questa regola
sovverte l’intera filosofia aristotelica.
Poiché i padri aboliscono la
legge di non contraddizione di
Aristotele 4, quando parlano
di D-o e gli attribuiscono qualità
antitetiche.
Ciò significa che i padri non
accettano le regole della logica
allorché si occupano di
questioni teologiche, cioè di questioni che
riguardano D-o. Perché?
Perché le regole della logica valgono, per
quanto possano valere, solo
per le creature di D-o. Per D-o non
valgono regole della logica o
della filosofia. Nessun sistema filosofico può essere a lui applicato, come
pure nessun sistema logico.
Quanti ritengono di poter
procedere con la matematica pura
nei confronti di D-o sono
assolutamente ingenui agli occhi dei
padri. Semplicissimamente
perché non vi è alcuna somiglianza
tra creato e increato. Ciò
che vale per le realtà create non vale per
la realtà increata che è D-o.
Non esistono, infatti, regole delle
creature che possano essere
applicate all’increato.
Tutto ciò che i padri
affermano in ordine a D-o non proviene
da una riflessione
filosofica. Essi, cioè, non siedono nei loro
uffici per fare teologia, al
modo scolastico. I padri della Chiesa
vietano a se stessi ogni
investigazione speculativa quando devono
teologare. Per questo l’unico
modo sensato di studiare la
Sacra Scrittura non è la
speculazione (cercare, cioè, con la facoltà
razionale e l’astrazione di
comprenderla) ma la preghiera.
Quale preghiera, tuttavia? La
preghiera intellettiva. Perché,
quando viene lo Spirito Santo
e visita l’uomo e prega nel cuore
dell’uomo, quest’ultimo è
illuminato e diventa capace di comprendere rettamente i concetti dell’Antico e
del Nuovo
Testamento, e di essere
condotto, da illuminato qual è, fino alla
divinizzazione.
E allorché e poiché è giunto
alla divinizzazione, conosce dall’esperienza stessa della divinizzazione cosa significano
precisamente le parole e i concetti che incontra nella Sacra Scrittura.
Abbiamo qui una chiave
ermeneutica: le parole e i concetti che
vengono utilizzati nella Bibbia dai
divinizzati che l’hanno scritta,
come pure le parole e i
concetti che vengono utilizzati nelle
opere dei padri della Chiesa
e dei santi, sono divinamente ispirati
nel senso che tutte queste
persone hanno l’esperienza o
dell’illuminazione o della
divinizzazione e sulla base di detta
esperienza hanno scritto ciò
che hanno scritto. Ossia: poiché
esse hanno questa esperienza,
ciò che hanno scritto è divinamente
ispirato.
_
Note:
1. «Per quanti, assieme ad
altre invenzioni mitologiche, di loro iniziativa ricreano anche la creazione
nostra e accettano come vere le idee platoniche…: anatema!
» (Synodikón dell’ortodossia).
2. Cioè termini con un
contenuto spirituale (non materiale) in riferimento a D-o.
3. Adamo è stato creato a
immagine di Cristo. L’uomo, per essere precisi, non è immagine di D-o, ma è
immagine di Cristo.
4. Una legge della logica di
Aristotele, secondo la quale una cosa non può essere al tempo stesso il suo
contrario. Una cosa, cioè, non può essere contemporaneamente nera e bianca.
O è nera o è bianca. Non può
essere di entrambi i colori.
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