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viernes, 7 de junio de 2013

Eremiti diocesani

 


Eremiti diocesani : c.d.c. 603


Can. 603 - § l. Oltre agli Istituti di vita consacrata, la Chiesa riconosce la vita eremitica o anacoretica con la quale i fedeli, in una più rigorosa separazione dal mondo, nel silenzio della solitudine, nella continua preghiera e penitenza, dedicano la propria vita alla lode di Dio e alla salvezza del mondo.
§ 2. L'eremita è riconosciuto dal diritto come dedicato a Dio nella vita consacrata se con voto, o con altro vincolo sacro, professa pubblicamente i tre consigli evangelici nelle mani del Vescovo diocesano e sotto la sua guida osserva il programma di vita che gli è propria.
 





Gli eremiti nel Codice di Diritto Canonico

(da: Le forme individuali di vita consacrata di Jean Beyer S.J.)
Gli eremiti nel Codice hanno il vantaggio di trovarvi una descrizione della loro propria vocazione nella vita consacrata (c. 603, par. 1). La cosa è importante. Partendo dal fatto dell'appello divino riconosciuto dalla Chiesa, essi sono della Chiesa e hanno nel diritto una posizione giuridica certa (3). Canonicamente, per essere riconosciuto eremita, bisogna che questi si impegni nelle mani del Vescovo, con una pubblica professione - attraverso voti o altri sacri legami - alla pratica dei tre consigli evangelici, a vivere uno stile di vita determinato sotto la guida dello stesso Vescovo diocesano.
Questa dipendenza è una obbedienza. Impedisce che l'eremita diventi un girovago. C'è tuttavia una difficoltà a realizzare un tale impegno. Il Vescovo comprenderà ciò che è, come vita consacrata, una vita eremitica? Se già molti religiosi si lamentano per la mancanza di comprensione della loro vita da parte delle autorità diocesane e della difficoltà a vivere il loro proprio carisma, non si può negare che un eremita preferisca non prendere questi impegni e vivere in fedeltà alla sua vocazione questo genere di vita consacrata. Tuttavia, in questo caso, sarà utile e perfino necessario dipendere da un prete - spesso il confessore dell'eremita - informato delle esigenze di un tal genere di vita. Ma questi non è sempre pienamente informato delle esigenze reali di questa vocazione, né dei progressi possibili in questa vita di silenzio e di solitudine. Il progetto del 1977, a questo riguardo, era piú ampio e piú prudente.
L'impegno dell'eremita poteva essere preso in dipendenza da un superiore religioso competente. Questo superiore può essere, se l'eremita è religioso, il suo proprio superiore. Poteva essere anche un superiore religioso da cui dipende un terz'ordine secolare (4). Il testo del c. 92, par. 2 del progetto del 1977 sembra ammettere questa soluzione. Un fatto è certo: un fedele cristiano può essere eremita, se si conforma alle esigenze spirituali ed esterne che pone oggi il c. 603, par. 1. Ciò esige: una separazione piú rigorosa dal mondo, il silenzio della solitudine, una preghiera e una penitenza continue. Una tale vita consacrata si vive per la lode di Dio e per la salvezza del mondo. Quest'ultimo elemento va sottolineato perché mette in evidenza la dimensione apostolica universale di questo dono a Dio e alle anime che suppone questo impegno (5). Essere eremita nella Chiesa, secondo il c. 603, par. 1, è un tipo di vita ecclesiale; gli impegni presi non sono piú semplicemente privati; se sono presi davanti al Vescovo diocesano, questo carattere ecclesiale è rafforzato.
Attenendosi alla normativa del c. 603, par. 2, un religioso, anche monaco, non sarà riconosciuto canonicamente in modo pieno come eremita senza questa professione di vita evangelica fatta nelle mani del Vescovo della diocesi. Le Costituzioni degli Istituti monastici possono tuttavia prevedere un tale impegno come conseguenza di una professione fatta in un Istituto di vita monastica. In questo caso, queste Costituzioni dovranno essere ben redatte e approvate dalla Santa Sede. Il monaco potrebbe essere eremita sulla proprietà del monastero e, avvertendo l'Ordinario del luogo, al di fuori del territorio del suo monastero, in vista di una piú grande solitudine. Come si vede, il fatto di considerare l'eremita nel Codice è un progresso. Il c. 603 non sopprime tutte le difficoltà. Numerose questioni restano aperte. La pratica spesso risolve meglio certi problemi rispetto alla loro discussione teorica. Notiamo, infine, che un eremita che non è religioso, non diventa «religioso» per il fatto della professione che emette nelle mani del Vescovo; questo contrariamente a quanto considerava il c. 92, par. 2 del progetto del 1977 (6).

Due lettrici del blog hanno il desiderio di donarsi a Dio come “eremite diocesane”. Una delle due ha già ottenuto l'approvazione da parte del vescovo della sua diocesi, e tra pochi giorni partirà per un monastero per ricevere una buona preparazione per questo austero genere di vita. Siccome anche un altro lettore mi ha scritto dicendomi che gli piacerebbe vivere in un eremo, ho deciso di scrivere un breve post per parlare degli eremiti diocesani.

Innanzitutto bisogna dire che l'eremita non è una persona asociale che vuole vivere in solitudine perché non si interessa del prossimo. Chi va a vivere in un eremo isolato lo fa perché è mosso dall'amore per Dio, e chi ama Dio ama anche il prossimo, infatti l'eremita offre le sue preghiere e penitenze per la conversione e la salvezza eterna delle anime che vivono nel mondo. Inoltre non vive sempre solo, infatti spesso molti fedeli vanno a trovarlo per pregare insieme a lui e parlare di temi spirituali.

L’eremita diocesano, con l'approvazione del Vescovo, vive in comunione con la diocesi nella quale è “incardinato”, professa i voti di povertà, castità e obbedienza, vive secondo un regolamento di vita approvato dalle autorità diocesane, e veste un abito simile a quello utilizzato negli ordini religiosi. Trascorre la giornata immerso nel silenzio e dedicandosi alla preghiera liturgica, all'orazione mentale, alla lettura spirituale, al lavoro manuale e all'accoglienza dei pellegrini. L'eremita ama la solitudine, poiché nella solitudine è più facile raccogliersi ed elevare la mente al Signore. Nel silenzio e nella solitudine, lo Spirito Santo parla al cuore delle sue anime dilette con parole che infiammano d'amore. La virtù si conserva facilmente nella solitudine, mentre si perde facilmente nel conversare col mondo, ove poco si conosce Dio, e poco conto si fa del suo amore e dei beni che Egli dona a chi lascia tutto per amor suo. È certo che per mantenere l'anima unita con Dio bisogna conservar nella mente le idee di Dio e dei beni immensi che Egli prepara a chi lo ama. Ma quando noi abbiamo contatti col mondo, esso ci presenta le cose terrene, le quali cancellano le idee spirituali e ci privano dei sentimenti di pietà.

I mondani fuggono la solitudine perché nella solitudine si fan sentire i rimorsi delle loro coscienze, perciò costoro vanno cercando conversazioni e distrazioni di mondo. Al contrario, le anime che vivono con pace di coscienza, non possono non amare la solitudine; e quando si trovano tra il baccano del mondo, si sentono come pesci fuor d'acqua. È vero che l'uomo ama la compagnia; ma qual più bella compagnia che quella di Dio! Non apporta né amarezza né tedio l'allontanarsi dalle creature per conversare intimamente col Creatore.

Non è vero che la vita solitaria è vita malinconica; ella invece è un assaggio e principio della vita dei beati che godono un gaudio immenso nell'occuparsi solamente di amare e lodare il loro bel Dio. I santi allorché vivono in solitudine sembrano soli, ma in realtà non stanno soli, stanno con Dio. Sembrano mesti, ma non sono mesti; il mondo, vedendoli lontani dai divertimenti terreni li giudica miseri e sconsolati, ma non è così; essi in realtà godono un'immensa e continua pace. Il Signore ben sa consolare un'anima che conduce una vita ritirata. Ella è sempre piena di gioia e d'allegrezza, e innalza ringraziamenti e lodi alla divina bontà.

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